Un vicequestore nato e cresciuto nel cuore di Roma, a Trastevere, viene trasferito ad Aosta.
Rocco Schiavone odia lo sci, le montagne, la neve, il freddo, ma deve aver combinato qualcosa di molto grosso per essersi meritato un esilio come questo.
È un poliziotto corrotto, ama la bella vita.
È violento. Sarcastico nel senso più romanesco di esserlo.
Saccente. Infedele, maleducato con le donne.
Cinico, e perdipiù odia il suo lavoro. Ma malauguratamente, ha talento.
Un giallo incalzante, un protagonista misterioso, da scoprire, uno stile di scrittura che non delude.
Semisepolto in mezzo a una pista sciistica sopra Champoluc, in Val d’Aosta, viene rinvenuto un cadavere.
Sul corpo è passato un gatto delle nevi, smembrandolo e rendendolo irriconoscibile. Ci sono poche tracce lì intorno per il vicequestore Rocco Schiavone, da poco trasferito ad Aosta: briciole di tabacco, lembi di indumenti, resti organici di varia pezzatura, e un macabro segno che non si è trattato di un incidente.
La vittima si chiama Leone Miccichè. È catanese, viene da una famiglia di imprenditori vinicoli, ed è arrivato tra le cime e i ghiacciai per aprire una lussuosa attività turistica insieme alla moglie. Luisa Pec è un’intelligente bellezza del luogo, che spicca senza difficoltà, ma soprattutto che stuzzica i facili appetiti del vicequestore, davanti al quale però si aprono tre piste: la vendetta di mafia, i debiti, e il delitto passionale.
Imboccare la strada più corretta si rivela sempre più complicato in quel mondo dove ogni cosa pare labile. Dal clima alle passioni, fino all’affidabilità dei testimoni. In quelle strette valli dove tutti sono parenti e tutti perfettamente a loro agio in quelle ricche contrade, tra un negozietto dai prezzi stellari, a un bar odoroso di vin brulè; la scuola di sci, il ristorante alla mano dalla cucina eccellente.
Quello di “Pista nera” è un giallo classico, sia nell’impianto, che nello svolgimento.
Quello che lo rende speciale è prima di tutto l’ambientazione. Il freddo che entra nelle ossa, la neve che si infila nelle scarpe inadatte del vicequestore.
Questo gelo rispecchia in pieno l’umore di Schiavone. Il suo sentire nei confronti di un nuovo ambiente così distante da quello a cui era abituato per diversi motivi.
A circondarlo ci sono personaggi di varia natura, ognuno di loro sapientemente descritto e resi speciali dal modo in cui Rocco Schiavone li vede, vive e osserva. Il suo modo di raccontarcene i lineamenti, il suo cogliere delle piccole sfumature nei gesti, che, come le cose, “non mentono”.
Rocco Schiavone ha talento. Mette un tassello dietro l’altro nell’enigma dell’inchiesta, collocandovi vite e caratteri delle persone come fossero frammenti di un puzzle. Non è un brav’uomo ma non si può non tifare per lui, forse per la sua vigorosa antipatia verso i luoghi comuni che ci circondano, forse perché è l’unico baluardo contro il male peggiore, la morte per mano omicida («in natura la morte non ha colpe»), o forse per qualche altro motivo che chiude in fondo al cuore.
È Rocco il vero e unico protagonista, la mente pensante, colui che mette insieme i pezzi, un personaggio del tutto particolare e, secondo noi, molto riuscito.
Perché Schiavone è così, ti ammalia e ti inquieta, più ti respinge e più ne vuoi ancora un pezzo, più è scorbutico e più lo inviteresti a cena. Forse ad attrarci sono il suo senso di giustizia e, insieme, la sua inquietudine. O forse, molto più semplicemente, il suo dolore. Così intenso, così reale da uscire fuori da quelle pagine, così profondo che è impossibile rimanerne indifferenti.
La storia ci è piaciuta perché è un giallo classico, con il morto, un’indagine, e una soluzione. Non è banale. È imprevedibile e scritta molto bene, rapida e dai ritmi serratissimi. I capitoli lunghi spronano a leggere sempre di più per scoprire chi, come e perché.
Una rilettura della tradizione del giallo all’italiana, capace di coniugare lo sguardo dolente del neorealismo e la risata sfrontata di una commedia di avanspettacolo.